“Ammarra vucchi”
Tra le tradizioni legate al rito di passaggio tra il vecchio e il nuovo anno e legate alla ciclicità delle stagioni, “l’ammarra vucchi” cefaludese, festa che si svolge la vigilia dell’Epifania, merita di essere attenzionata.
Gli anziani cefaludesi ancor oggi recitano: “ppi ammarra li vucchi” “s’ammarrianu cristiani e armali”. La sera della vigilia dell’Epifania, le famiglie cefaludesi si riunivano e si concedevano un lauto pasto, ricco di diverse pietanze. Ammarrari significa letteralmente riempire, rendere saturo, come suggerisce l’etimologia dallo spagnolo “embarrar”.
Infatti, il proposito di questa ricorrenza è quello di riempire i commensali di tante prelibatezze della cucina indigena, per auspicare un anno fertile di ogni abbondanza.
La sera del cinque gennaio, tutti i membri delle famiglie si riunivano per consumare insieme tredici pietanze diverse, che venivano servite in abbondanza perché lo scopo era quello di concludere le festività natalizie, mangiando a dismisura, per prepararsi ad un nuovo ciclo di giorni, in cui le privazioni costituivano la normalità.
Anche gli animali che allora erano considerati domestici, quali, cani, asini, mucche, capre consumavano lauti pasti.
Le tredici pietanze erano: “sasizza asciutta, ciciri, favi ugghiuti amugghiati ‘nta l’uogghiu cu sali e pipi, pastietti ri vruocculi e di carduna, vruocculi ugghiuti, baccala’ a pastietta, trippa a stricasali o chi patati, baccala’ a ghiuotta etc etc e per finire…. spinci ammugghiati nto vinu cuottu!!! e pi finiri i catuobisi, fichi sicchi, nuci”.
L’usanza di imbandire questo banchetto deriva dall’ospitalità che, per tradizione, venne offerta alle carovane di Magi che si recarono a Betlemme per vedere l’Emmanuele.
Malgrado le ristrettezze economiche dei tempi, tutte le famiglie cercavano di preparare la copiosa varietà di pietanze, con la quale si concludevano le festività natalizie, poiché il giorno successivo, quello dell’Epifania, non era un giorno, secondo l’uso popolare, di particolare importanza.
L’Ammarra li ucchi costituisce una sorta di vigilia di Capodanno tradizionale: vi è l’abbondanza della festa e la caduca consapevolezza che la festa dura solo un giorno, che l’appetito deve essere appagato a dismisura, perché presto sarà il tempo della normalità, fatta di lavoro e di privazioni.
Forte è il legame con l’anno precedente: i cibi vengono, infatti preparati già dagli ultimi giorni di dicembre e questa data viene vista come una sorta di festa di precetto degli appetiti e della generosa convivialità.
L’ammarra li ucchi costituisce, al contempo, un continuum della ciclicità dell’anno e, nei suoi trepidi preparativi, una sorta di trascendenza che, serve solo a rimarcare l’immanenza: si va oltre, ci si abbuffa fino ad ammarrarisi per ritornare presto nel quotidiano misurato.
Il numero tredici delle pietanze, che e molti anziani del paese ricordano, è un numero dalla forte valenza simbolica: tredici sono i giorni che intercorrono dal Natale all’Epifania; nel tredicesimo giorno dalla nascita dell’Emmanuele, i Magi andarono a conoscere il Bambino Gesù; il tredici è’ composto da uno e da tre per cui, l’Uno origine di tutte le cose, ha in sé il germe del principio non ancora formato, numero divino, sorgente di tutto ciò che esiste e che è, il Tre presenta le potenze realizzate dell’Uno; il numero tredici, nella sua riduzione teosofica diventa un quattro, 1+3=4, è l’antico numero della completezza, associato alla fine di un ciclo; tredici sono i mesi lunari in un anno.
Il tredici, dunque, ci parla di nuovi inizi, ci mostra che i vecchi sistemi devono terminare per favorire le trasformazioni richieste. I cibi preparati per l’Ammarra li ucchi sono piatti della cucina che oggi viene definita povera: sostanzialmente sono costituiti da cibi di stagione, ma, anch’essi hanno una valenza simbolica, che innalza la mensa da mera tavola a sacro altare.
Uno dei piatti focali di questa tradizione sono è costituito dai cibi preparati con la pastella. La pastella è impasto molle di farina, lievito di birra e acqua, in cui si immergono cibi da friggere o con cui si fanno frittelle.
La pastella con la sua lievitazione, che, a parità di ingredienti, dipende dal clima e dalla mano della cuoca, è una potenza in fieri, un divenire del passato in futuro, sotto i migliori auspici. Il medesimo simbolismo è riscontrabile nell’uso di consumare i spinci. Esse sono delle frittelle di pasta lievitata dalla forma asimmetrica, simili a piccole spugne.
Le origini sono incerte: vengono menzionate con questo termine, nel 1330, dove per la prima volta, in un testo scritto, troviamo gli sfingiari a Palermo, ovvero i venditori di sfingi. Secondo Pino Correnti, illustre gastronomo siciliano, potrebbero addirittura, risalire all’era pagana, consumati dagli abitanti autoctoni dell’isola durante il solstizio d’inverno come dolci propiziatori.
Il loro nome deriverebbe dal latino spongia e dal greco sponghìa, spugna, proprio per la loro facoltà di assorbire l’olio della frittura. Le fave, anch’esse copiosamente presenti nel banchetto, secondo una tradizione che affonda le sue origine ai pitagorici, sono il simbolo dell’incessante ciclo della vita e della morte.
Pitagora, sosteneva infatti che consumare fave fosse un mezzo per mantenersi nel ciclo della metensomatosi. Cibi che rimandano al futuro, dunque, ma sempre imprescindibilmente legati al ciclo cosmico della vita, perché la festa rappresenta il discretuum all’interno del continuum.
Daniela Mendola