Martedì, 11 Novembre 1941
Il racconto di Johnny Fallon
Tre di noi, Ken Griffiths, Pete Watson ed io, ci trovavamo in libera uscita a Valletta. Avevamo appena finito di fare colazione quando ci fu recapitato un messaggio di far ritorno alla base.
Ricordo che prima di salire sull’autobus comprammo dei Papaveri del Giorno dell’Armistizio (simbolo britannico dei Caduti di guerra celebrato ogni anno l’11 Novembre).
Quando ci presentammo all’830° Stormo, Ken Griffiths ed io fummo informati che saremmo andati in volo quella notte. Io avrei preso il posto di un altro TAG (mitragliere/telegrafista) che quel giorno si era ammalato.
Avevo la strana sensazione che la mia fortuna fosse finita e che non avrei mai più fatto ritorno, così quando “Lucky” Reynolds si offrì di prestarmi la sua giacca di volo, come era solito fare quando non toccava a lui volare, decisi di rifiutare l’offerta e gli dissi che avrei indossato la divisa da combattimento.
Prima di incamminarmi verso il campo di volo passai dalla mensa per salutare i ragazzi promettendo loro che prima o poi gli avrei scritto (non avevo mai fatto nulla del genere prima).
Durante il briefing pre-volo fummo informati che il nostro obiettivo era un convoglio nemico dell’Asse composto da due navi mercantili e da delle scorte, la cui posizione fu riportata a ovest di Pantelleria.
Il biplano Swordfish a capo della formazione era pilotato dal Pilota Esperto e Capo Pattuglia Tenente Osborn. Il suo osservatore era l’ufficiale Tenente Hunt e il Sergente Parke come mitragliere e operatore ASV (radar per pattugliamento marittimo). Il pilota del mio aereo era il Sottotenente Stewart Campbell con il quale ebbi modo di volarci altre volte durante missioni passate e di notare le sue ottime capacità di pilotaggio, cosa che mi metteva abbastanza a mio agio. Ken Griffiths volava invece col Tenente Wigram.
Dopo molto tempo trascorso in aria non riuscivo a credere che ancora non avessimo trovato quel convoglio nonostante fossimo equipaggiati di un radar ASV e guidati da un esperto navigatore. Sporgevo la testa fuori lungo l’aereo alla ricerca di qualche nave. Pensavo avessimo già virato verso est per far ritorno a Malta, ma in realtà lo facemmo troppo tardi. Dopo aver volato a nord della Sicilia oltre un punto di non ritorno, in riserva di carburante, ormai non avevamo più nessuna speranza di rientrare alla base. Il Sottotenente Campbell mi disse che avrebbe prima sganciato la bomba e che poi saremmo ammarati e così mi diede il permesso di contattare Malta per comunicare le nostre intenzioni. La bomba fu sganciata all’entrata del porto di Palermo.
Non riuscii a contattare Malta ma continuai a trasmettere con la speranza di poter comunicare la nostra posizione di ammaraggio ad altre stazioni (solo in seguito venni a sapere che il nostro segnale giunse fino ad Alessandria e Gibilterra). Alla fine ammarammo nel tratto di mare di Cefalù. Il pilota fece un ottimo ammaraggio e riuscimmo ad uscire fuori dall’aereo senza difficoltà. Ma presto ci rendemmo conto che ci stavano sparando addosso. L’aereo iniziò ad andare a fondo, attivando così il gommone di salvataggio che iniziò subito a gonfiarsi ma, proprio mentre stavamo per salirci sopra, fu colpito e iniziò a sgonfiarsi.
Fummo fortunati ad uscirne vivi ma ora non avevamo altra scelta che nuotare fino alla costa. Arrivammo insieme alla spiaggia aspettando di trovarci di fronte qualche nemico, ma fu tutto tranquillo e non vedemmo nessuno. Attraversammo così la spiaggia, arrampicandoci al buio fino in cima a delle scogliere [quelle del Santa Lucia] dove poi ci sdraiammo.Fu una giornata molto lunga ed intensa e, nonostante avessi la tuta bagnata fradicia, mi addormentai in fretta e ci svegliammo il giorno dopo in pieno giorno. Osservando con attenzione quella scogliera pensai che, se fossimo finiti lì alla luce del giorno, avremmo sicuramente scelto un sentiero più facile. La spiaggia era deserta.
Il Sottotenente Campbell ad un certo punto mi disse: “Sicuramente gli Avieri come noi vengono ammazzati in questo Paese”. In realtà sapevo che si sbagliava perché avevamo saputo da poco dell’ufficiale Johnny Jobling e del Tenente Manning fatti prigionieri soltanto un mese prima.
Quando arrivammo alla centrale telefonica fummo trattenuti sulla soglia dove all’interno un’operatrice era impegnata al telefono, molto probabilmente in contatto con la polizia militare.
Non vedevamo né barche né soldati. Iniziammo ad esplorare l’area fino ad arrivare alla linea ferroviaria.
Ad un certo punto all’arrivo di un treno ci dovemmo nascondere. Procedette lentamente verso ovest carico di truppe. Trovammo un piccolo passaggio stretto che seguimmo in direzione est.
Non andammo molto lontano che, mentre cercavamo di evitare la parete di una grande roccia, ci ritrovammo all’improvviso in un grande spiazzale dove fummo confrontati da un grande numero di truppe che sembravano essere in gruppi di cinque o sei, probabilmente facenti parte delle squadre di ricerca. Quando ci videro rimasero sorpresi quanto noi! E senza possibilità di scampo non ci rimase altro che arrenderci.
Non fu usata violenza. Tutto avvenne in maniera abbastanza civile. Fummo perquisiti e poi scortati lungo la ferrovia per circa un chilometro fino a una piccola centralina telefonica. Lungo il tragitto ci trovammo a passare per delle case con la gente raccolta davanti le porte. Era ovvio che la notizia si era già sparsa velocemente per il paese, avendo sicuramente udito gli spari durante la notte. Mentre passavamo notai alcune donne che piangendo si asciugavano il volto. Dovevano aver pensato che fossi ferito, in quanto il petto sinistro della mia uniforme bagnata era macchiato di rosso e poteva essere scambiato per sangue (a quei tempi gli equipaggi avevano fasce fluorescenti cucite sui loro giubbotti gonfiabili di salvataggio che a contatto con l’acqua emettevano una tintura rossa che solo in seguito diventava gialla).
Mentre aspettavamo, arrivarono alcuni giovani che cercarono di fare conversazione con noi, ma i soldati che ci scortavano intervennero per tenerli a distanza. Alla fine arrivarono alcuni carabinieri che ci portarono in una stazione di polizia, dove fummo interrogati per alcune ore prima di essere consegnati all’Aeronautica Militare Italiana presso il Grand Hotel di Palermo, sotto scorta.
Ci diedero camere da letto separate con un bagno in comune, dove fuori veniva sempre posta una guardia di turno per sorvegliarci. Gli attrezzi per la barba, lo spazzolino da denti, ecc…tutto a nostra disposizione, perfino un paio di stivali ciascuno, visto che i nostri si persero in mare.
Il soggiorno qui fu quasi come una vacanza. Camera singola, lenzuola pulite, buon cibo e grandi asciugamani da bagno (fui molto tentato di prendermene uno quando ce ne andammo!). Al mattino ci permettevano di uscire nel giardino sul retro dell’hotel, dove potevamo calciare un pallone da calcio. C’erano degli alberi di aranci la vicino. Calciando il pallone da quelle parti spesso riuscivamo a prenderci delle grosse arance dolci e succose, con le nostre guardie che per questo motivo cercavano sempre di tenerci lontani.
All’ora di pranzo venivamo scortati in un grande bar dove potevamo bere un drink, per il quale dovevamo sempre prima firmare. Uno di noi si firmava “Iosif Stalin”, e l’altro “Winston Churchill”. E così alzando i bicchieri in aria dicevamo in italiano: “Paga Churchill!”; con le nostre guardie e il personale del bar che, divertiti, si univano a noi.
In serata alcuni avieri italiani venivano nelle nostre camere, inevitabilmente vantandosi delle loro azioni su Malta quel giorno, racconti a cui noi però non sempre credevamo del tutto.
Penso che fu il terzo giorno quando gli altri due membri dell’equipaggio arrivarono in hotel, rovinando così il nostro piacevole soggiorno. Il nostro ufficiale capo pattuglia Osborn e il suo osservatore Hunt sembrarono essere molto seri e scostati l’uno dall’altro, ma nessuno dei due diceva cosa c’era che non andava. Solo in seguito appresi che Osborn aveva messo in discussione le istruzioni che gli erano state date da Hunt ma gli venne detto di farsi i fatti suoi.
La sera seguente fummo tutti invitati al quartier generale della Regia Aeronautica, a banchetto con le più alte cariche dell’Arma. Ricordo che uno dei nostri ufficiali durante la cena disse: “Se avessimo saputo che saremmo stati trattati così, saremmo venuti qui prima!” E tutti scoppiarono a ridere.
In generale ricordo con grande piacere che fummo trattati bene dai Siciliani, con cortesia e gentilezza. Le cose si fecero più difficili quando fummo deportati al Nord. Ma alla fine riuscii a scappare dal campo di prigionia e fui ospitato da una famiglia di contadini per diversi mesi (dove imparai anche un discreto italiano!) prima del mio rientro in Inghilterra.
Johnny Fallon